INCIPIT DEL LIBRO IN PALIO
"Fuoco e ghiaccio"
di Carmilla D
edito da Intrecci Edizioni
Nuovo anno accademico
L’inizio del semestre mi faceva sempre un certo effetto, pur non
essendo una novità, per me.
Guidavo nel traffico mattutino come un automa, la strada scorreva
sotto le ruote del mio coupé come l’acqua di un fiume che mormora
tranquillo, tanto la conoscevo a memoria.
Mi imbambolai, in coda all’ennesimo semaforo che mi portava in
facoltà, e tra me e me pensai che era una fortuna avere il posto riservato
nel cortile. Già, chissà dove avrei parcheggiato sennò… Certe volte ero
proprio pigro. O forse dovrei dire annoiato?
Senz’altro si trattava di noia; anche perché camminare o correre non
mi costava nessuna fatica, se non il disturbo che dovevo prendermi per
moderare l’andatura.
Il fatto di avere sensi così sviluppati era davvero un pregio in certi casi,
mi permetteva di perdermi nei miei pensieri senza badare alla strada o al
traffico.
Il più delle volte erano rivolti a questioni piuttosto concrete o a
problemi professionali. Ero molto meno avvezzo invece alle speculazioni
di carattere filosofico; non tanto perché non le amassi, ma perché nel
corso dei secoli avevo elaborato una visione della vita tutta mia.
Per quanto riguardava la religione invece il discorso era del tutto
diverso. La fede per me era un tasto così delicato che non l’avevo mai presa
sotto gamba. Mi ritenevo un buon credente, ligio ai doveri di cattolico:
presenziavo alla santa Messa quasi ogni domenica e mi presentavo di tanto in tanto dal padre confessore; purtroppo non avevo mai potuto dire
proprio tutta la verità perché, segreto o non segreto, avevo sempre temuto
che qualche reverendo oltremodo zelante chiamasse la neuro per farmi
internare.
Certo che mi ponevo l’interrogativo di che cos’ero agli occhi di Dio
Padre; ma in tutto il tempo che avevo avuto, le ricerche e gli innumerevoli
tentativi di sondare il problema con chi sembrava saperla più lunga di me
erano purtroppo falliti. Perciò era da un pezzo che avevo accantonato la
questione.
Del resto, perché continuare a crucciarsi se nessuno possedeva le
risposte che cercavo? Ormai avevo deciso che l’avrei chiesto direttamente
all’Altissimo, se mai mi fosse capitato di presentarmi al Suo cospetto.
“Uffa, coda anche lungo l’ultimo rettilineo… Certo che con l’andare
del tempo non ci sono affatto stati progressi nella circolazione stradale!”
pensai con disappunto, riemergendo dalle mie elucubrazioni.
Una volta tutto era più semplice, ci si poteva quasi materializzare in
mezzo alla gente senza che nessuno si prendesse la briga di fare domande
imbarazzanti, a parte qualche occhiataccia, per lo più sgomenta. In quel
momento arrivai all’ingresso della facoltà, mi apprestai a strisciare il mio
pass per accedere al parcheggio del cortile e mi ritrovai a riflettere che io, a
differenza di molti altri della mia specie, mi ero del tutto integrato nell’era
moderna.
Magari grazie alla mia indole o alle frequentazioni di giovani studenti,
non avrei saputo dire di preciso; ma amavo la vita che facevo: non mi
mancava nulla e non volevo che cambiasse perché mi sentivo davvero
realizzato. Poi pensai al clan degli Anziani, ossessionati dalla necessità di
vivere nell’anonimato, mi annoiavano e mi infastidivano oltremodo. Erano
tutti così seri e incartapecoriti, così all’antica! Ecco perché la maggior parte
di loro viveva rintanata. Erano davvero inadatti a condividere il mondo
degli umani. Per fortuna godevano di grosse rendite di denaro, frutto di
un accumulo protrattosi per secoli.
Parcheggiai l’auto nel posto assegnatomi e spensi la radio, che passava
Hero di David Bowie. Non me n’ero quasi accorto, immerso com’ero nei
miei pensieri. Mi ritrovai a osservare quante volte avessi ascoltato quel
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pezzo e considerai che forse conciliava le riflessioni che avevo appena
fatto, con quel suo ritmo ipnotizzante e inconfondibile.
Mi sentivo di buon umore, perciò decisi di non rovinarmelo
recandomi al bar per qualche uggiosa conversazione da inizio anno; ne
avevo sentite mille volte, mi tediavano, tanto più che non avevo proprio
voglia di trangugiare uno schifoso caffè. Non che lo facessero male; anzi
a detta di tutti era bevibile, ma non era proprio il mio genere.
Mi diressi quindi verso l’ala della facoltà che ospitava il mio dipartimento,
orgoglioso del fatto che fosse quella più antica: del resto quale zona del
Castello del Valentino poteva essere più adatta ad accogliere il dipartimento
di Storia dell’Architettura Medioevale e Rinascimentale, se non il corpo
centrale e più vetusto?
Mi apprestai a salire con calma lo scalone di rappresentanza, che
conduceva anche alla presidenza. Ogni volta che cambiavo ateneo mi
gustavo quel gesto più di ogni altro, forse perché sapevo non lo avrei
potuto fare per tutto il tempo che volevo.
Avevo i giorni contati in qualsiasi università e ogni anno che passava
decretava l’avvicinarsi della mia partenza verso un’altra per motivi di
famiglia. Per quanto mi trovassi a mio agio tra gli umani, avrebbe sollevato
non poche perplessità la presenza di un docente con il perenne aspetto
di un venticinquenne, nonostante la carriera degna di un professore
prossimo alla pensione.
Dovevo farmene una ragione; anche se quel pensiero mi metteva
sempre addosso una certa malinconia. Quel tratto del mio carattere era
rimasto molto umano e, sebbene il passare dei secoli avesse stravolto la
mia prospettiva del tempo in modo irrevocabile, mi ritrovavo sempre
affezionato ai colleghi e ai luoghi che frequentavo, proprio come qualsiasi
altra persona, e la dipartita mi provocava sempre una piccola fitta al cuore.
Ero conscio che non avrei mai più potuto vedere quella gente e solo il
pensiero che sarei comunque potuto tornare in quel luogo - anche se dopo
una lunga assenza, per evitare con sicurezza di essere ricordato - mi dava
un piccolo sollievo. Sapevo che almeno quel posto l’avrei rivisto, mi era
concesso affezionarmi solo a quest’ultimo se non volevo soffrire. Ma che
vita era potersi attaccare solo a delle cose? [...]
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Complimenti a _trashinganarchy
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